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Milano: arte, storia, cultura e curiosità

Milano, conosciuta come capitale della moda e città d’affari per eccellenza, popolata di manager e trendsetter, fredda e nebbiosa, è in realtà uno scrigno di tesori d’arte, storia e cultura. Dal Duomo, la chiesa gotica più grande del mondo, a San Maurizio al Monastero Maggiore, decorata da cinquemila metri quadri di affreschi, dal Cenacolo, capolavoro di Leonardo da Vinci, alla Pietà Rondanini, ultima opera di Michelangelo, passando per i celebri Navigli, le leggiadre ville Liberty e le straordinarie collezioni dei musei fino ad arrivare al Castello Sforzesco, Milano offre infinite possibilità agli amanti del turismo culturale.

Duomo di Milano
Duomo di Milano

Milano è conosciuta in tutto il mondo per il suo straordinario Duomo, una selva di pinnacoli, statue ed archi rampanti, un racconto monumentale di oltre sei secoli di storia dell’arte. Architetti, artisti e grandi maestri artigiani hanno contribuito alla creazione di questa cattedrale unica, assolutamente da visitare! Tra le statue più curiose del Duomo ci sono certamente quella cinquecentesca di San Bartolomeo scorticato (che ha terrorizzato intere generazioni di ragazzini in gita scolastica) realizzata da Marco d’Agrate, quella di Primo Carnera realizzata negli anni 30 del Novecento per omaggiare il primo pugile italiano a fregiarsi del titolo mondiale e la Legge Nuova (1810) di Camillo Pacetti che pare abbia ispirato la realizzazione della, ben più famosa, Statua della Libertà di New York.

Tra le meraviglie meneghine è certamente da annoverare anche la Chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, detta anche la “Cappella Sistina di Milano” grazie al maestoso ciclo di affreschi di scuola leonardesca che ne decora le pareti. Tra le grandi opere, recentemente restaurate e che quindi regalano nuovamente tutto il loro splendore, a colpire l’occhio del visitatore più curioso è l’affresco di Aurelio Luini (figlio del più celebre Bernardino) “Storie dell’Arca di Noè” che, incredibilmente, vede salire sull’arca più famosa di sempre gli altrettanto celebri “due leocorni”.

Cenacolo di Leonardo
Cenacolo di Leonardo

Milano vanta anche uno dei più grandi capolavori d’arte al mondo: il Cenacolo di Leonardo da Vinci (1494-1498). Contrariamente a quanto molti credono, l’Ultima Cena del maestro fiorentino non è un affresco ma un dipinto realizzato con tempera grassa e una tecnica molto simile a quella usata per la pittura su tavola che consentì una maggiore definizione dei dettagli e una brillantezza straordinaria dei colori. Nonostante i vantaggi, la scelta di questa originale tecnica causò anche grossi problemi di conservazione dell’opera, più esposta agli agenti atmosferici (ed ai vapori provenienti dalla cucina, essendo il Cenacolo dipinto sul muro del refettorio dell’ormai ex convento di Santa Maria delle Grazie) e al deterioramento causato dal passare del tempo. Ammirare l’Ultima Cena di Leonardo è un’esperienza emozionante che chiunque visiti Milano non deve lasciarsi sfuggire.

Un altro capolavoro degno di nota tra i tanti che si trovano a Milano, benché sia probabilmente meno conosciuto e certamente meno apprezzato del Cenacolo, è la Pietà Rondanini di Michelangelo (1552-1564) regina indiscussa dei Musei del Castello Sforzesco. Opera ritenuta tra le più personali del maestro (forse addirittura ideata per la di lui sepoltura secondo quanto indicato dal Vasari), la Pietà Rondanini rappresenta la scena biblica, raffigura l’abbraccio tra la madre e il figlio, sottintende la prossimità della resurrezione. Curioso il fatto che la monumentale opera sia stata acquistata dal Comune di Milano nel 1952 grazie ad una sottoscrizione pubblica tra tutti i cittadini (fortemente voluta dall’allora direttrice della Pinacoteca di Brera Fernanda Wittgens) che raccolse i 135 milioni necessari all’acquisto.

Se avrete l’occasione di visitare Milano in più giorni non lasciatevi sfuggire le collezioni d’arte della Pinacoteca di Brera – dal Cristo morto di Mantegna al Bacio di Hayez – della Pinacoteca Ambrosiana – dal Musico di Leonardo alla Canestra di Caravaggio – e del Museo del Novecento che espone il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, Forme uniche della continuità dello spazio di Boccioni (sì, la scultura riprodotta sui 20 centesimi di euro italiani) e opere di de Chirico, Fontana, Modigliani e Kandinskij.

Ma a Milano l’arte non è solo quella dei grandi capolavori, a Milano si passeggia con il naso all’insù per ammirare le ville decorate da maioliche colorate in stile Liberty – una su tutte Casa Galimberti in Porta Venezia – si respira la romantica atmosfera dei Navigli tra botteghe d’arte e bistrot, si rimane incantati dalle storie e dalle leggende raccontate dal Castello Sforzesco e dal Parco Sempione, ci si stupisce di fronte ai coloratissimi murales dei quartieri più popolari come NoLo o l’Ortica.

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Analfabeti funzionali: gli odierni creatori della cultura italiana

Per secoli sono esistiti i creatori di cultura. Ancor prima (molto prima) che il termine cultura – Kultur – venisse utilizzato in quest’ambito nel Settecento dai tedeschi progenitori dei sociologi moderni, c’erano Michelangelo e Leonardo a portare la maestosità delle loro opere al popolo grazie al potere della chiesa, c’era l’oste emiliano che sbirciando dalla serratura l’ombelico di una cliente inventò i tortellini, c’era il corredo della sposa realizzato a mano, c’erano la selva oscura e Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, c’erano il Colosseo, il Castello Sforzesco, il Maschio Angioino e la Basilica di San Marco. E in seguito ci furono l’ermo colle e quel ramo del Lago di Como, le battaglie femministe per il voto e quelle dei lavoratori per il diritto allo sciopero, ci furono Maria Montessori e Alessandro Volta.

Ma, dopo secoli, è nel decennio corrente che ci troviamo di fronte alla destrutturazione della tradizionale creazione di cultura. Causato in massima parte dall’arrivo di grandi fasce della popolazione sui social network, questa turbolenta inversione di rotta si caratterizza per la possibilità che dà a chiunque di reinventarsi quale creatore di cultura. Tempo fa lessi un’affermazione di Umberto Eco che sintetizza amaramente il fatto che, nei secoli, opinioni poco sensate o non condivise dalla collettività venivano facilmente da quest’ultima sedate mentre ora, online, ciò che viene condiviso ha infinite possibilità di giungere all’orecchio di un altro folle e, in breve tempo, tramutarsi in cultura.

In seguito al conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Culture dei Media, Umberto Eco sostenne che “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. 

Come la storia insegna, ad ogni invasione dovrebbe corrispondere una resistenza, una resa o, come in questo caso, una fuga. Ed è così che l’invasione degli imbecilli ha trionfato conquistando le nuove terre del terzo millennio, i social network. In questo nuovo mondo, patria degli emigranti in cerca più di condivisioni che di fortuna, gli imbecilli di Eco si dan man forte, spingendosi poi nel territorio circostante, nel mondo reale, forti delle loro certezze.

Ma da dove nasce questa necessità degli imbecilli digitali di comunicare, di essere ascoltati, di essere compresi? Probabilmente la questione ha origine proprio da ciò che Eco descrive con la sua frase, dopo una vita durante la quale questi soggetti  “parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività” e poi “Venivano subito messi a tacere” hanno trovato finalmente un’occasione di riscossa grazie all’avvento dei social network, nati proprio con la finalità di mettere in contatto persone che avessero tra loro qualcosa in comune (Mark Zuckerberg fondò Facebbok nel 2004 con l’intenzione di incentivare la socializzazione tra studenti dell’Università di Harvard).

Per quanto la stessa Facebook abbia provato a contenere le bufale, le fake news e determinati contenuti ritenuti offensivi (ne parlo qui: Lotta a bufale e analfabetismo funzionale: Facebook nuovo alleato)  non è ancora stato trovato un modo di arginare gli imbecilli di Eco che ora, più educatamente, vengono definiti “Analfabeti funzionali”. Queste persone, che, secondo un indagine del Programme for the International Assessment of Adult Competencies (PIAAC) che ha considerato 33 Paesi, risultano essere circa il 28% in Italia (peggio di noi in Europa solo la Turchia con una percentuale del 48% di analfabeti funzionali) sanno leggere e scrivere ma non hanno capacità di elaborazione critica, non sono in grado di comprendere le istruzioni di montaggio di un elettrodomestico ne di elaborare ed utilizzare le informazioni di un testo semplice.  Nella maggior parte dei casi gli analfabeti funzionali  hanno più di 55 anni e sono poco istruiti, oppure sono giovanissimi che che vivono ancora con i genitori e non studiano ne lavorano (i cosidetti NEET – not in education, employment or training) o, probabilmente nel peggiore dei casi, sono laureati che hanno subito una sorta di processo di analfabetismo di ritorno.

Ecco con chi abbiamo a che fare, ecco chi crea la nostra cultura oggi, ecco chi si affanna a parlare di politica, chi crede che i migranti percepiscano 35 euro al giorno, chi dice che le famiglie arcobaleno non esistono, chi  crede che un’azienda assumerà un giovane che verserà gli stessi contributi di un lavoratore con quarant’anni di anzianità pagandogli la pensione, chi usa la reaction di risata, pensando alla solita fake news che lui stesso è stato accusato di condividere, quando l’Ansa dà notizia di un naufragio. Chi ride della morte.  Ecco con chi abbiamo a che fare, ecco chi crea la nostra cultura oggi.

Lotta a bufale e analfabetismo funzionale: Facebook nuovo alleato

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha annunciato l’arrivo di nuovi tool per combattere la disinformazione o, per meglio dire, le bufale. Ma qual è la situazione che ha aiutato il social network più diffuso al mondo a trasformarsi in terreno fertile per chi vuole fare disinformazione?

In Italia circa il 70% della popolazione è analfabeta funzionale: questo significa che è tecnicamente in grado di scrivere e leggere ma difficilmente riesce a capire e processare l’informazione. Sette italiani su dieci sarebbero incapaci di leggere un contratto d’affitto o una polizza assicurativa e la situazione non migliora se si considerano le abilità numeriche o di problem solving.

Secondo il Rapporto nazionale sulle Competenze degli Adulti redatto da ISFOL nel 2014, che prende in considerazione 24 paesi UE, gli italiani sono i più colpiti dall’analfabetismo funzionale, nettamente sotto la media OCSE. Provano a risollevare le sorti del Belpaese giovani e donne (che hanno ottenuto risultati migliori), proprio quelle categorie che, in Italia, faticano ad emergere e farsi strada a livello lavorativo, sociale e politico.

In questo quadro disastrato, nel quale il 70% delle persone non possiedono le abilità per elaborare correttamente le informazioni, troviamo quasi il 50% della popolazione italiana (27 milioni di individui) classificata come utenza attiva su facebook.

Profetiche le parole pronunciate da Umberto Eco in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media nel 2015: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità

Stando così le cose, proprio come sosteneva il letterato, ad una bufala viene data la stessa rilevanza e visibilità che hanno le notizie reali. Il patron del colosso social ha annunciato l’inserimento di un nuovo pulsante grazie al quale sarà possibile per gli utenti segnalare delle potenziali bufale pubblicate sulla piattaforma. I link segnalati più volte saranno analizzati e, se ritenuti bufale, verranno pesantemente penalizzati nel news feed (avranno meno visibilità e non sarà possibile sponsorizzarli).

“Non scriviamo le notizie che leggete e condividete, ma riconosciamo che siamo molto di più di un distributore di contenuti. Siamo una nuova piattaforma per il dibattito pubblico”. Questa la dichiarazione di Zuckerberg che, a seguito dei vari errori commessi negli ultimi mesi in tema di metriche, vuole disperatamente recuperare credito e credibilità.

 

Città italiane: Padova, la città dei tre senza

L’ispirazione la si può trovare ovunque, da chiunque e da qualsiasi cosa. Nuove riflessioni possono nascere dalla poetica di un autore, da un quadro, da uno strumento antico o da una città. Emblemi dei percorsi storici che le hanno attraversate, le città italiane nascondono sempre preziosi spunti per pensare, per conoscere, per imparare. Visitare una città è come ascoltare una storia fatta di persone, di regni, di religioni, di consuetudini, di movimenti, di arte e tanto ancora.

Padova è detta la città dei tre senza: un Santo senza nome, un prato senza erba, un caffè senza porte.

Il Santo senza nome in realtà un nome l’aveva, Sant’Antonio da Padova, ma è chiamato da tutti solamente “il Santo” tanto è che la Basilica a lui dedicata è detta “Basilica del Santo” e la piazza antistante è Piazza del Santo.

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Basilica del Santo

Il prato senza erba, che oggi l’erba ce l’ha, è Prato della Valle: la maestosa piazza (una delle più grandi d’Europa) è stata per anni un terreno paludoso, continuamente funestato da alluvioni fino al compimento dell’opera di bonifica e riqualificazione operata da Andrea Memmo nel ‘700. La piazza era, già nell’antichità, chiamata “pratum” (ovvero ampio mercato), nonostante l’erba – insieme agli alberi, i ponti, gli obelischi, le statue, l’isola memmia, la fontana e tanto altro – non ci fosse.

Prato della Valle

Quando mi sono trovata davanti al celeberrimo Caffè Pedrocchi di Padova sono rimasta delusa, le porte c’erano (due!!!) ed erano anche parecchio pesanti. Il locale infatti era detto “senza porte” per il semplice fatto che non chiudeva mai. Da quando nell’800 è stato costruito, il Caffè Pedrocchi è stato luogo di ritrovo per intellettuali ventiquattrore su ventiquattro, almeno fino al 1916 quando, a causa del pericolo austriaco, cominciò ad abbassare le serrande durante la notte.

Il caffè Pedrocchi alla menta
Il caffè Pedrocchi alla menta