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Meno sogni, più realtà: i Millennials alla ricerca del futuro

Il Reputation Institute Italia ha presentato il 6 aprile a Milano la classifica stilata in base alla reputazione di cui le aziende godono nel nostro Paese. Oltre a risultare da subito esterofila, la top 10 italiana (che di nostrani conta solo 4 nomi) è caratterizzata da una valutazione positiva dei brand più legati all’infanzia (Disney e LEGO), ai peccati di gola (Ferrero), ai sogni (chi non vorrebbe una Ferrari testa rossa in garage?!):

  1. The Walt Disney Company (85,4)
  2. Ferrero (84,7)
  3. Ferrari (84,2)
  4. LEGO Group (83,7)
  5. Amazon (82,1)

Gli italiani ne escono come un popolo di sognatori, che valuta meglio il bello, ciò che regala gioia, che riporta all’infanzia.

E poi ci sono i Millennials. Noi nati tra il 1980 e il 2000, che secondo diverse ricerche diventeremo a breve il gruppo di consumatori più consistente (attualmente il primato rimane ai baby boomer), abbiamo, però, scelto un’azienda di tutt’altro tipo, una compagnia che non regala sogni ma fornisce realtà, rende qualsiasi prodotto alla nostra portata e disponibile in tempi brevissimi. Vincitrice del premio “Best for Millennials”, novità introdotta quest’anno da Reputation Institute per premiare quelle aziende che godono della miglior reputazione tra gli italiani di 18-34 anni, è Amazon.

Da questo percorso di allontanamento dei millennials dall’opinione comune si può partire per fare alcune riflessioni sulla forma mentis di questa generazione, su cosa ci sia successo, su cosa ci stia ancora succedendo, su come potranno andare le cose in futuro.

Cosa ci è successo – Mi è stato detto che potevo diventare chiunque io volessi, mi è stato insegnato che sei tu a scegliere la tua strada, che qualsiasi strada è percorribile e che i risultati sarebbero dipesi unicamente da quanto ti saresti impegnato. Sono cresciuta imparando il concetto chiave della generazione dei baby boomer (i nati tra il 1945 e il 1965): più grande sarà il tuo impegno e maggiore sarà il tuo successo.

Cosa ci sta succedendo – Questa prospettiva si è presto scontrata con la realtà attuale nella quale la preparazione e l’impegno non bastano. La chiave per il successo è decisamente cambiata e, purtroppo, non è ancora nota. Pur non mancando brillanti e/o fortunate eccezioni, il 62% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori (siamo mammoni sì, ma abbiamo anche uno stipendio medio di molto inferiore a quello delle generazioni precedenti) e il tasso di occupazione di un laureato di 30-34 anni è passato dal 79,5% del 2005 al 73,7% del 2016.

Il futuro – Crediamo nel futuro. Ma soprattutto crediamo nello spirito di adattamento. La generazione dei Millennials è quella del cambiamento, della capacità di cavarsela in ogni situazione, di non pensare al lavoro fisso, alla casa, alla famiglia ma a stare bene ed essere felici di quello che si riesce ad ottenere con le proprie forze.

Se è vero che il processo di adattamento alla situazione attuale (ad un ambiente ostile?!) della categoria dei Millennials è ancora in atto, è anche certo che, una volta portato a termine, questo cambiamento darà modo alle generazioni future di vivere con una maggiore consapevolezza, di non dare nulla per scontato, di conoscere la grande arte della resilienza, di vivere secondo dei valori dimenticando il concetto di identità collettiva e omologazione tipico dei periodi di boom economico.

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CETA: cos’è e perchè è da evitare

È giunta oggi la notizia della resa dell’ultimo avamposto di opposizione al CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement). La Vallonia, regione belga, avrebbe potuto bloccare l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada grazie alla particolarità della costituzione del Belgio che prevede l’approvazione da parte di ogni regione in caso di accordi internazionali (senza questa ratifica si blocca quindi di fatto anche quella europea). La Vallonia ha capitolato questa mattina.

Con l’approvazione del CETA, il commercio UE-Canada cambierebbe radicalmente: verrebbero eliminati il 99% dei dazi doganali. Seppur considerato dal Consiglio europeo un’opportunità per combattere il dilagante imperialismo asiatico e dare forza alle imprese occidentali, l’accordo comporta una serie di problematiche non indifferenti, prima tra tutte la questione della corte di arbitrato, organismo extra-giudiziario deputato a decidere nelle controversie tra stato e imprese, il rischio che ne deriva è che questi “tribunali” finiscano sotto il giogo delle multinazionali facendo terra bruciata intorno alle piccole e medie imprese.

Altre problematiche rilevanti riguardano la sicurezza alimentare, l’impatto sull’ambiente e sui diritti dei lavoratori e dei consumatori. La possibilità di un invasione di prodotti canadesi (soprattutto riguardo carne, lattiero-caseario, manifattura e prodotti agricoli) spaventa le piccole e medie imprese, senza contare che il Canada è tra i primi produttori di falso Made in Italy.

CETA - Il tweet di Greenpeace Italia riguardo l'approvazione del Belgio
CETA – Il tweet di Greenpeace Italia riguardo l’approvazione del Belgio

 

La protesta relativa alla ratifica del CETA si è affiancata a quella contro il TTIP, l’accordo per il libero scambio con gli Stati Uniti, arenatosi circa 15 giorni fa. La Commissione europea ritiene che il trattato possa far crescere l’economia UE di circa 100 miliardi di euro ma le problematiche sono le stesse che riguardano il CETA, aggravate dalla mole del partner in questione: gli Stati Uniti.

 

Per approfondire le tematiche relative al Diritto dell’Unione Europea segnaliamo il testo di Giuseppe Testauro – Editoriale Scientifica (II edizione, 2020).

Cambiamenti nel consumo: licenze, sharing economy e servitù della gleba..

“Le aziende del digitale stanno cambiando il diritto di proprietà” è la tesi di Aaron Perzanowski, professore di Legge all’Università Case Western di Cleveland. Il docente è convinto, grazie all’ausilio di alcuni test e simulazioni condotti sui consumatori, che questi non siano assolutamente consapevoli di ciò che stia accadendo, del fatto che ciò che considerano “di loro proprietà” spesso non lo sia affatto. Le aziende del digitale che concedono licenze – non vendono prodotti ma CONCEDONO LICENZE per fruire di un prodotto – hanno anche la facoltà di cancellare un album musicale, un ebook, un’app già pagata entrando senza permesso nella tua libreria virtuale.

Un articolo di pochi giorni fa, pubblicato su Repubblica.it, spiega, citando anche il professor Perzanowski, come il meccanismo stesso sia impostato per rendere difficile all’utente la comprensione di quanto sta avvenendo:

In verità, sarebbe scritto nei vari contratti di servizio: “Il prodotto non è venduto, ma dato in licenza”, per citare quelli del Kindle o di iTunes. Solo che pochi leggono quelle paginate in legalese. E il bottone “acquista” pare messo lì ad arte per confondere. Perzanowski lo ha mostrato con un esperimento. Ha creato un negozio virtuale simile a quelli di Amazon, Apple o Netflix e chiesto agli utenti cosa avrebbero potuto fare dei loro acquisti. Nel caso dei libri, il 12% ha risposto che si potevano rivendere, il 26 lasciare in eredità, la metà prestare, l’86% che erano di sua proprietà. Sbagliato, in tutti i casi. E il possesso non è neppure eterno: nel 2009 Amazon ha cancellato un’edizione di 1984 di Orwell dai lettori di chi l’aveva “comprato”.

Ci si avvia dunque verso un cambiamento epocale per quanto riguarda il concetto e l’essenza stessa della proprietà privata. La possibilità di fruizione di un bene si va a sostituire al possesso, anche in funzione di quella che è la nuova tendenza in fatto di consumo: la sharing economy. È pur vero che alla base della sharing economy (economia della condivisione) deve pur esserci qualcuno che acquista un bene ma, in seguito, la sua fruizione si dilata, si estende a persone che non sono nella sfera personale di chi possiede il bene.

Per spiegare meglio il concetto: voi fareste guidare la vostra auto a vostro fratello o al vostro migliore amico? Credo che per molti la risposta sia ovvia. Ma se vi chiedessero di mettere al volante uno sconosciuto? Anche in questo caso, mi aspetto una più che comprensibile risposta negativa. Eppure esistono piattaforme e app basate sui concetti della sharing economy che ogni giorno fanno viaggiare perfetti sconosciuti sull’auto di privati (e non è raro sentire, in caso di viaggi lunghi, che ci si alterni alla guida con il proprietario dell’auto). Se ci viene dunque fornito l’ambiente adatto, in questo esempio un’app, il nostro modo di concepire la proprietà privata cambia, si dilata, diventa inclusivo.

Partendo da questo cambiamento, che ormai si configura come ipotesi molto probabile per il futuro prossimo, sono molte le strade che potrebbero seguire il consumo e quindi l’economia. Considerando il modello economico antecedente all’invenzione della proprietà privata, basato su baratto e condivisione in base al bisogno, sarebbe possibile un ritorno alle origini, l’eliminazione di qualcosa che è stato giudicato dannoso per la società (su minori grandezze e scala temporale più limitata si può citare quanto successe con la schiavitù: ovvia per le società di diversi secoli è ora considerata sbagliata da chiunque).

Ma se questo processo dovesse davvero iniziare, cosa ne penserebbero i possessori della vera ricchezza? Coloro i quali invece di condividere auto e libri virtuali si trovassero a dover abbandonare la possibilità di starsene in panciolle sulla propria isola privata? Si correrebbe il rischio che tali persone sfruttino addirittura quest’inversione di tendenza in materia di consumi accumulando essi stessi beni da dare in licenza e condivisione e concentrando così la proprietà privata nelle mani di pochissimi senza che i consumatori se ne rendano conto.

Tutto ciò è ovviamente un’ipotesi di cambiamento che va oltre ogni ricerca ed ogni processo attualmente in atto ma, tenendo conto del fatto che stiamo tornando all’arcaica economia della condivisione (diffusa quando la società era organizzata in matriarcati nomadi), perché non dovremmo tornare alla molto più recente servitù della gleba?