“Le aziende del digitale stanno cambiando il diritto di proprietà” è la tesi di Aaron Perzanowski, professore di Legge all’Università Case Western di Cleveland. Il docente è convinto, grazie all’ausilio di alcuni test e simulazioni condotti sui consumatori, che questi non siano assolutamente consapevoli di ciò che stia accadendo, del fatto che ciò che considerano “di loro proprietà” spesso non lo sia affatto. Le aziende del digitale che concedono licenze – non vendono prodotti ma CONCEDONO LICENZE per fruire di un prodotto – hanno anche la facoltà di cancellare un album musicale, un ebook, un’app già pagata entrando senza permesso nella tua libreria virtuale.
Un articolo di pochi giorni fa, pubblicato su Repubblica.it, spiega, citando anche il professor Perzanowski, come il meccanismo stesso sia impostato per rendere difficile all’utente la comprensione di quanto sta avvenendo:
In verità, sarebbe scritto nei vari contratti di servizio: “Il prodotto non è venduto, ma dato in licenza”, per citare quelli del Kindle o di iTunes. Solo che pochi leggono quelle paginate in legalese. E il bottone “acquista” pare messo lì ad arte per confondere. Perzanowski lo ha mostrato con un esperimento. Ha creato un negozio virtuale simile a quelli di Amazon, Apple o Netflix e chiesto agli utenti cosa avrebbero potuto fare dei loro acquisti. Nel caso dei libri, il 12% ha risposto che si potevano rivendere, il 26 lasciare in eredità, la metà prestare, l’86% che erano di sua proprietà. Sbagliato, in tutti i casi. E il possesso non è neppure eterno: nel 2009 Amazon ha cancellato un’edizione di 1984 di Orwell dai lettori di chi l’aveva “comprato”.
Ci si avvia dunque verso un cambiamento epocale per quanto riguarda il concetto e l’essenza stessa della proprietà privata. La possibilità di fruizione di un bene si va a sostituire al possesso, anche in funzione di quella che è la nuova tendenza in fatto di consumo: la sharing economy. È pur vero che alla base della sharing economy (economia della condivisione) deve pur esserci qualcuno che acquista un bene ma, in seguito, la sua fruizione si dilata, si estende a persone che non sono nella sfera personale di chi possiede il bene.
Per spiegare meglio il concetto: voi fareste guidare la vostra auto a vostro fratello o al vostro migliore amico? Credo che per molti la risposta sia ovvia. Ma se vi chiedessero di mettere al volante uno sconosciuto? Anche in questo caso, mi aspetto una più che comprensibile risposta negativa. Eppure esistono piattaforme e app basate sui concetti della sharing economy che ogni giorno fanno viaggiare perfetti sconosciuti sull’auto di privati (e non è raro sentire, in caso di viaggi lunghi, che ci si alterni alla guida con il proprietario dell’auto). Se ci viene dunque fornito l’ambiente adatto, in questo esempio un’app, il nostro modo di concepire la proprietà privata cambia, si dilata, diventa inclusivo.
Partendo da questo cambiamento, che ormai si configura come ipotesi molto probabile per il futuro prossimo, sono molte le strade che potrebbero seguire il consumo e quindi l’economia. Considerando il modello economico antecedente all’invenzione della proprietà privata, basato su baratto e condivisione in base al bisogno, sarebbe possibile un ritorno alle origini, l’eliminazione di qualcosa che è stato giudicato dannoso per la società (su minori grandezze e scala temporale più limitata si può citare quanto successe con la schiavitù: ovvia per le società di diversi secoli è ora considerata sbagliata da chiunque).
Ma se questo processo dovesse davvero iniziare, cosa ne penserebbero i possessori della vera ricchezza? Coloro i quali invece di condividere auto e libri virtuali si trovassero a dover abbandonare la possibilità di starsene in panciolle sulla propria isola privata? Si correrebbe il rischio che tali persone sfruttino addirittura quest’inversione di tendenza in materia di consumi accumulando essi stessi beni da dare in licenza e condivisione e concentrando così la proprietà privata nelle mani di pochissimi senza che i consumatori se ne rendano conto.
Tutto ciò è ovviamente un’ipotesi di cambiamento che va oltre ogni ricerca ed ogni processo attualmente in atto ma, tenendo conto del fatto che stiamo tornando all’arcaica economia della condivisione (diffusa quando la società era organizzata in matriarcati nomadi), perché non dovremmo tornare alla molto più recente servitù della gleba?