Libri da leggere per la Giornata del libro

Il 24 aprile è la Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, istituita nel 1996 e patrocinata dall’UNESCO. L’obiettivo della Giornata del libro è quello di promuovere la lettura, di incoraggiare le persone a scegliere dei libri da leggere in base ai propri interessi. Che tu sia appassionato di letteratura fantascientifica, di gialli, di grandi classici o romanzi contemporanei, hai a disposizione migliaia di libri da leggere in quarantena.

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Cecità, capolavoro distopico tra i libri da leggere

Romanzo scritto dal premio Nobel per la letteratura portoghese José Saramago, Cecità esplora il concetto dell’indifferenza umana. Per la giornata del libro ti consiglio di leggere la storia di questa città dove iniziano a verificarsi strani avvenimenti che stravolgeranno la vita così come la conosciamo. Alcuni abitanti vengono colpiti da una strana forma di cecità e, di conseguenza, rinchiusi dalle autorità che temono un’epidemia… Senza troppi giri di parole, non vi sembra perfetto come titolo tra i libri da leggere in quarantena?

Saramago ha scritto anche il seguito di quest’opera per continuare il suo viaggio nella mente umana attraverso personalismi e paure. Saggio sulla lucidità approfondisce il rapporto del popolo con le figure appartenenti al governo così come Cecità sviscerava i rapporti tra piccoli gruppi sociali. Nella Giornata mondiale del libro non dovrebbe mai mancare un capolavoro da Premio Nobel. Saramago è stato premiato per la sua capacità di “afferrare una realtà elusiva […] con parabole sostenute da immaginazione, compassione e ironia”.

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Libri da leggere per “Buonisti”

La piccola casa editrice italiana People si dà l’obiettivo di raccontare persone, battaglie e trasformazioni. Tra queste il libro Buonisti di Jacopo Melio, attivista conosciuto per aver fondato #VorreiPrendereilTreno.  Questa onlus sensibilizza su temi quali la disabilità, l’inclusione e l’abbattimento delle barriere architettoniche (e culturali!) Un’altra voce della casa editrice è quella di Espérance Hakuzwimana Ripanti, scrittrice italiana nata in Ruanda e cresciuta in provincia di Brescia. Ma non solo, con People ha pubblicato anche la senatrice Liliana Segre.

  • I Buonisti sono quelle persone che cercano di farsi spazio in una società affetta da razzismo, egoismo e fascismo. In questo libro Melio racconta gli attacchi da lui subiti (come spesso capita ai “buonisti”) e li raccoglie in una lista surreale che ci ricorda di rimanere umani, ogni giorno. Assolutamente tra i libri da leggere in quarantena, Buonisti aiuta a pensare, aiuta ad uscire di nuovo di casa ma come persone migliori.
  • E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana è il racconto personale di Espérance Hakuzwimana Ripanti, della sua vita cominciata in Ruanda e continuata in Italia. È la storia degli ostacoli incontrati, dei compagni di viaggio e della lotta per trovare la propria voce di una donna nera italiana.
  • Liliana Segre. Il mare nero dell’indifferenza è una testimonianza della Senatrice Segre, espulsa dalla scuola, clandestina e deportata ad Auschwitz. Negli ultimi trent’anni, diventata nonna, la Segre ha promosso una straordinaria campagna contro l’indifferenza e contro il razzismo. Un messaggio di speranza rivolto ai giovani, suoi “nipoti ideali”, perché non si perdano mai i diritti e il rispetto per le persone.

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Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare

Luis Sepúlveda, amato scrittore e attivista cileno recentemente scomparso, ci ha lasciato molti romanzi, racconti e poesie. Tra i più celebri vi è Storia di una gabbianella e del gatto che le insegno a volare. Da questo romanzo, tra i libri da leggere almeno una volta nella vita, è stato tratto il film d’animazione “La gabbianella e il gatto”. La storia dell’orfana gabbianella Fortunata, cresciuta dal gatto Zorba tra mille difficoltà è commovente, semplice, diretta. «Sepúlveda costruisce con la consueta maestria letteraria un mondo dove aiutare chi è in difficoltà è il valore supremo.» dalla critica di Bruno Arpaia.

«Sull’orlo del baratro ha capito la cosa più importante» miagolò Zorba. «Ah sì? E cosa ha capito?» chiese l’umano. «Che vola solo chi osa farlo» miagolò Zorba.

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Harry Potter, tutti i libri da leggere in quarantena

La saga creata da J.K. Rowling si trova, ormai da decenni, in vetta a tutte le classifiche di vendita. Tra i libri da leggere assolutamente nella vita, quelli che raccontano le avventure di Harry, Ermione e Ron non possono mancare! Si tratta di una saga di sette libri, perfetta per chi vuole scoprire un nuovo mondo fantasioso e straordinariamente coinvolgente. Il maghetto Harry Potter, amato da grandi e bambini, combatterà contro il crudele mago oscuro Voldemort per salvare tutto il mondo dei maghi. Adatta anche a chi non ha l’abitudine di leggere, la saga di Harry Potter è super consigliata per chiunque voglia aderire alla Giornata del libro!

Una saga letteraria capace di conquistare qualsiasi lettore, Harry Potter crea una commistione perfetta tra realtà e fantasia. “Certo che sta succedendo dentro la tua testa, Harry. Ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?” (citazione: Silente in Harry Potter e i Doni della Morte).

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L’amica geniale, il fenomeno da ri-leggere per la Giornata del libro

Tra i libri da leggere in quarantena per la giornata mondiale del libro non poteva mancare L’amica geniale, fenomeno tutto italiano. La serie di 4 romanzi è stata scritta da Elena Ferrante (pseudonimo) e letta da 12 milioni di persone nel mondo. La serie è composta da L’amica geniale, Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta e da Storia della bambina perduta. La storia, ambientata a Napoli negli anni ’50, è quella di Lenù e Lila, due ragazze molto diverse unite da una grande amicizia.

La Ferrante pone l’accento sui sentimenti e sui cambiamenti delle sue protagoniste tessendo una trama incentrata sulla vita delle donne. Dai libri è tratta una serie realizzata in Italia e trasmessa in molti paesi del mondo. Tra le nuove letture più interessanti del decennio, L’amica geniale non poteva mancare nelle proposte dedicate alla Giornata del libro.

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Io resto a casa: l’ambiente domestico nell’arte

Le limitazioni di movimento scelte dal governo italiano per limitare la diffusione del famigerato Covid-19 ci impongono di rimanere in casa. Decisione sofferta ma, a parer mio, corretta, la firma del decreto “Io resto a casa” (in data 9 marzo 2020) estende a tutta Italia i divieti imposti alla Lombardia e ad altre 14 province del Nord Italia il giorno precedente. Sui media (social e non) si assiste a costanti appelli alla responsabilità e al buonsenso. Ma, pensando a quella che è la richiesta che ci viene fatta, è davvero poi così difficile rispettare queste regole?

Nella storia dell’arte sono molte le rappresentazioni di ambienti domestici. Veri e propri luoghi di vita vissuta e non solo stanze per riposare la sera e fare colazione la mattina. In questo periodo vissuto con difficoltà da alcuni, ho deciso di raccogliere alcune opere d’arte che ritraggono ambienti domestici e raccontarvele. Dopotutto, l’arte ci aiuta ad essere più felici (ne parlo qui: Come essere felici: 3 fattori chiave), anche a casa nostra!

Io resto a casa: il decreto

Riporto, per quanto possibile sinteticamente, quelle che sono le limitazioni imposte dal decreto “Io resto a casa” su tutto il territorio nazionale fino al 3 aprile:

  • I cittadini potranno muoversi unicamente per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità o spostamenti per motivi di salute”.
  • Vietati gli assembramenti di persone e quindi stop a feste, raduni e stadi.
  • Si deve rispettare ovunque la distanza di almeno un metro tra una persona e l’altra, no a baci, abbracci e strette di mano.
  • Chiusi tutti i cinema, impianti sciistici, musei, teatri, discoteche, palestre e luoghi di svago. Aperti i parchi ma frequentabili solo rispettando le regole.
  • Bar e ristoranti possono aprire dalle 6 alle 18 (ma molti esercenti hanno scelto la chiusura per tutelare sé stessi, i dipendenti e il bene comune).

Potete leggere il decreto per intero nella Gazzetta Ufficiale: decreto 8 marzo (ora esteso a tutta Italia) e decreto “Io resto a casa” del 9 marzo.

Io resto a casa: la solitudine nell’era dell’aperitivo

Limitazione della libertà personale, poca interazione con altre persone del proprio gruppo sociale, difficoltà nel cambiare le proprie abitudini seppur per un breve periodo. Queste sono le obbiezioni poste da chi tra le quattro mura di casa, magari da solo, pensa di non poterci stare.

Chi non ama uscire dall’ufficio e rilassarsi prendendo un aperitivo con gli amici? A chi non piace fare un giro al centro commerciale nei giorni piovosi per comprare vestiti, scarpe e accessori domestici? Potrei continuare all’infinito con queste domande ma il tema è che in questo momento non vi deve importare cosa vi piace fare. State a casa, anche se non vi piace.

Viviamo l’ambiente domestico

A questo proposito, sono troppe le attività casalinghe alle quali, nella vita frenetica delle grandi città, non concediamo abbastanza spazio. Leggete, cucinate (magari un dolce, i dolci ci rendono tutti più sereni!) meditate, sistemate l’armadio e ascoltate musica. Quando finite la vostra giornata lavorativa in smart working mettete via il computer e fate un aperitivo in videochiamata, qualche esercizio a corpo libero in salotto o leggete un libro.

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“L’influsso che l’ambiente può avere sulla nostra vita quotidiana e sulla percezione della felicità è notevole ed è ormai da anni oggetto di studio della psicologia ambientale che si occupa proprio di studiare il comportamento umano e il benessere delle persone in relazione alle caratteristiche fisiche e sociali dei luoghi della vita quotidiana” spiega Mirilia Bonnes, direttore del Centro Interuniversitario di Ricerca in Psicologia Ambientale (CIRPA), presso l’Università di Roma la Sapienza. “Il nesso ambiente-felicità è dovuto a vari processi psicologici che si instaurano nella nostra mente e che contribuiscono al benessere nella vita quotidiana anche in relazione ai luoghi dell’abitare”. (dichiarazioni tratte da un articolo di Centodieci.it)

Proprio la dottoressa Bonnes, in un’intervista al Messaggero di qualche anno fa sosteneva che “All’interno della casa ci sono diversi fattori che possono risultare decisivi… La convivenza deve consentire spazi di autonomia, anche personale. È necessario, in qualsiasi momento, potersi isolare, poter regolare l’accesso degli altri a sé. Questo elemento, importante sempre nella vita delle persone, diventa vitale all’interno della propria casa. La regolazione della privacy è uno dei fattori di soddisfazione della vita quotidiana”.

Quindi, se siete a casa da soli, consideratevi anche fortunati!

L’ambiente domestico nell’arte

Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck

Dipinto datato 1434 e conservato alla National Gallery di Londra, è tra le opere meglio conosciute dell’artista e della pittura fiamminga in generale. Tra i più antichi esempi di ritratto privato, questo olio su tavola è caratterizzato da una minuziosa rappresentazione dell’ambiente domestico. Una gran varietà di oggetti sono dipinti con estrema precisione ma quello che, più di tutti attira l’attenzione, è lo specchio. Al centro dell’opera è raffigurato uno specchio convesso che ritrae la coppia di spalle e lascia intravedere altre persone presenti nella stanza.

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A tutt’oggi ancora non è stabilito certamente cosa rappresenti quest’opera enigmatica. La tesi più accreditata (proposta da Erwin Panofsky nel 1934) è quella che si tratti della raffigurazione del matrimonio del mercante Giovanni Arnolfini con la prima moglie Costanza Trenta. Altri teorizzano possa trattarsi di una promessa di matrimonio o di un omaggi del marito alla moglie venuta a mancare prematuramente. In Simboli e allegorie, edito da Electa, si legge anche che “Il dipinto è un’allegoria dell’ideale sociale del matrimonio, portatore di ricchezza, abbondanza, prosperità. Il cane e gli zoccoli rappresentano il motivo della fedeltà coniugale. Le arance sono un augurio di fertilità.”

La Lezione di musica di Jan Vermeer

Dipinto a olio su tela del 1662, é conservato nelle collezioni reali a St. James’s Palace (Londra). La stanza, ampia e inondata di luce, incornicia perfettamente la scena amorosa che il pittore vuole mostrare. La spinetta (lo strumento suonato dalla ragazza) riporta l’iscrizione “La musica è compagna della gioia e balsamo per il dolore.”

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Particolare attenzione viene data, anche in questo caso, ai dettagli della stanza. Dal marmo del pavimento al tappeto che ricopre il tavolo fino al velluto ceruleo della sedia. Particolare anche la posizione dello specchio che, al contrario di quanto realizzato nel ritratto di Jan van Eyck, ci permette di scorgere il viso della giovane dipinta di spalle.

La camera di Vincent ad Arles di Vincent van Gogh

Forse la più celebre tra le opere che raffigurano l’ambiente domestico, la Camera di Vincent ad Arles è stata realizzata in tre versioni. I quadri sono stati dipinti tra il 1888 ed il 1889 e sono conservati presso il Van Gogh Museum di Amsterdam, l’Art Institute of Chicago ed il Museo d’Orsay di Parigi. Van Gogh rappresenta la sua quotidianità nella casa gialla di Arles, dove sperava di allestire un rifugio per artisti. Troviamo nella stanza un attaccapanni con appeso il celebre cappello di paglia con cui l’artista si ritrasse. Ma possiamo ammirare anche due stampe giapponesi, un autoritratto e due sedie vuote.

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L’intenzione di van Gogh è quella di rappresentare il riposo, il sonno, la quiete. “Qui il colore deve fare tutto, e poiché con il suo effetto semplificante conferisce maggiore stile alle cose, esso dovrà suggerire riposo o sonno in generale. In una parola, guardare il quadro deve far riposare il cervello, o piuttosto l’immaginazione […] Questo come una sorta di vendetta per il riposo forzato al quale sono stato obbligato.”

Interno (La Mia Sala da Pranzo) di Vassily Kandinsky

Il quadro, datato 1909 e conservato alla Galleria Lenbachhaus di Monaco di Baviera, non è certo tra i più noti dell’artista. Probabilmente realizzata nel periodo in cui Kandinsky sperimenta un utilizzo violento ed antinaturalistico del colore, l’opera presenta ancora soggetti ben delineati e definiti. Sarà solo dopo un paio d’anni (1911) che l’artista esporrà le sue prime opere astratte in una mostra personale a Berlino.

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In questa stanza riconosciamo molti dettagli tra i quali il tavolo, la sedia, il calorifero e un cestino colmo di frutta. Potrebbe essere la sala da pranzo di chiunque. Con un po’ di fantasia, potrebbe essere la nuova versione (super colorata ma metaforica) del nostro ambiente domestico!

Io resto a casa!

Spero vi sia piaciuta questa piccola divagazione sul tema dell’ambiente domestico nell’arte, se avete suggerimenti riguardo ad altre opere da inserire nell’articolo saranno molto apprezzati. Spero anche vi sia servito a trovare una prospettiva diversa dalla quale guardare la vostra casa, forse più romantica, magari più colorata.

E se ancora non siete convinti di poter ricavare qualcosa di buono da quest’imposizione… Ricordate, ai nostri nonni hanno imposto di andare in guerra, a noi viene solo chiesto di stare sul divano!

Come essere felici: 3 fattori chiave

Negli ultimi anni molti ricercatori si sono dati da fare per trovare la chiave della felicità, il Santo Graal della nostra epoca. Pare però che questa magica soluzione ad ogni problema non sia univoca ma composta da più fattori. Emerge quindi la necessità, per gli individui che desiderano essere felici, di creare un equilibrio tra relazioni, emozioni, tempo e attività.

Nel World Happiness Report 2019 – che considera fattori chiave per la felicità di un popolo il pil pro capite, la speranza di vita e di salute, il supporto sociale e della famiglia, la generosità, la libertà di scelta e la fiducia nell’economia e nel governo – si è registrato un ulteriore calo della felicità mondiale, tendenza negativa costante iniziata con la crisi economica. In questo report, che vede l’Italia scalare una decina di posizioni rispetto ai due anni precedenti (ne ho parlato qui), a farla da padroni sono i paesi del Nord Europa: Finlandia, Danimarca e Norvegia conquistano il podio della felicità. L’Italia conquista il 36esimo posto della classifica grazie alla speranza di vita e salute, che ci vede settimi al mondo, e al supporto sociale e familiare (23esima posizione) ma arranca in quanto a positività. Sono infatti molto diffusi sentimenti di rabbia e preoccupazione, calo della fiducia nelle istituzioni e percezioni di mancanza di libertà decisionale e di prospettive per i giovani.

Altre ricerche però indicano come fattori chiave per una vita felice indicatori che il World Happiness Report non tiene in considerazione, scopriamo quali:

Il tempo per essere felici

Il Museo Novecento di Firenze, in occasione del Capodanno 2020, ha chiesto a 1000 persone di scegliere come essere felici votando una coppia di desideri e “più tempo, più passioni” ha vinto con il 14% dei voti. Tenendo conto della rilevanza intrinseca di tutte le coppie di desideri (solo per citarne alcune: più cura, più rispetto; meno violenza, più fiducia; più lavoro, più serenità) si tratta di un risultato che fa riflettere. Secondo uno studio recente (pubblicato nel febbraio 2019 dalla rivista Harvard Business Review), condotto dalla ricercatrice Ashley Whillans, su 100.000 lavoratori di tutto il mondo, coloro che sono disposti a rinunciare ad un guadagno maggiore per ottenere più tempo libero hanno “relazioni sociali più soddisfacenti, carriere più soddisfacenti e più gioia e, complessivamente, vite più felici” (Fonte: Forbes.it)

Consigli per guadagnare tempo:

  • Munitevi di un’agenda: programmare i vostri impegni è il modo migliore per guadagnare tempo!
  • Fatevi aiutare nelle faccende di casa: dal vostro compagno/a, dalla vicina alla quale ricambierete il favore, da un professionista del pulito o da un’agenzia specializzata.
  • Liberatevi del Complesso di Atlante: se avete un lavoro a tempo pieno, non pretendete di partecipare a tutte le attività scolastiche e sportive dei vostri figli; se avete bisogno di fare un bagno rilassante, la vostra amica in crisi può aspettare un paio d’ore prima di essere chiamata; se non avete tutta questa voglia di andare ad un aperitivo di team building con i colleghi declinate, sarà per la prossima volta.

Come essere felici grazie alla Natura

Un altro fattore chiave per essere felici, probabilmente meno ovvio del primo, è quello protagonista del libro “The nature fix: why nature make us happier, healtier and more creative” (prima edizione 2017) della giornalista Florence Williams. L’autrice, in un’intervista al National Geographic, ha spiegato come un gruppo di neuroscienziati abbia monitorato l’attività celebrale di alcuni individui e registrato i cambiamenti che avvenivano in base ai diversi luoghi in cui il soggetto si trovava. Ne è emerso che “Le onde alfa, tipiche di un individuo sveglio ma del tutto rilassato, si registrano più forti quando questi si trova nella natura”. A supportare questa tesi la nuova ricerca dell’European Centre for Environment and Human Health dell’Università di Exeter che, sulle pagine della rivista Scientific Reports, sostiene che bastino 2 ore a settimana immersi nella natura a migliorare il nostro umore ed il benessere psico-fisico. Sempre secondo questa ricerca, non è necessario passare questo tempo facendo sport o camminate (che comunque sono auspicabili, essendo anche l’attività fisica un fattore importante per la nostra felicità) ma basterebbe sedersi su una panchina immersa nel verde o rilassarsi appoggiati ad un albero contemplando i paesaggi naturali circostanti.

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Consigli per dedicare due ore alla natura:

  • Andate al mare! È inverno? Abitate in una delle cinque regioni in Italia senza sbocco sul mare? Ci sono i laghi: Lago di Garda, Lago d’Iseo, Lago di Como, Lago Maggiore, Lago d’Orta, Lago Trasimeno e così via…
  • Partecipate ad una gita in montagna: l’Italia vanta migliaia di chilometri di sentieri, non sempre è necessario essere grandi alpinisti, per molti di questi bastano delle scarpe adatte e i compagni di camminata adatti. Personalmente consiglio la mulattiera che da Valbondione (BG) porta all’Osservatorio dove ammirare una delle speciali aperture delle cascate del Serio (trovate il calendario qui).
  • Scegliete un parco nella vostra città (ogni città ne ha almeno uno!) e rilassatevi…

L’arte di essere felici

Ma la vera novità è lo studio inglese che sostiene che dedicarsi all’arte non solo ci rende felici ma anche più longevi. Pubblicato sul British Medical Journal nel dicembre 2019, lo studio dell’Universal College London indica non solo che visitare musei e mostre ed andare a teatro renda più felici ma addirittura che allunghi la vita. Emerge così che il rischio di morte precoce si riduce del 31% per chi partecipa ad attività culturali almeno una volta al mese. Le attività culturali sono da anni associate ad un miglioramento dell’umore, come ad esempio ha dimostrato un’indagine del Prof. Enzo Grossi dell’Università di Bologna. Monitorando i cambiamenti del livello di cortisolo (l’ormone dello stress) di 99 persone durante una visita alla cupola ellittica settecentesca del Santuario di Vicoforte è emerso che questo è sceso del 60% durante l’attività culturale ed, inoltre, il 90% dei partecipanti ha dimostrato di essere più felice.

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  • Visitate un museo, ce ne sono di tutti i tipi, ci sarà pure qualcosa di vostro gusto! Tra l’altro i musei civici sono gratis la prima domenica del mese ed in alcuni giorni particolari (calendario qui). Tra i miei musei preferiti: Pinacoteca di Brera (Milano), Galleria degli Uffizi (Firenze), Collezione Peggy Guggenheim (Venezia) e i celebri Musei Vaticani.
  • Visitate una chiesa, un’abbazia, una certosa, un palazzo storico, un monumento, un teatro, un castello, una piazza, un sito archeologico; l’arte è ovunque…
  • Ammirate una mostra (solitamente richiede meno tempo della visita ad un museo ed è più coinvolgente perché organizzata intorno ad un artista o ad una corrente specifica); il 2020 sarà l’anno di Raffaello quindi preparatevi a riscoprire questo grande genio del Rinascimento. Per chi invece, come me, ama l’arte moderna e contemporanea consiglio di visitare “Van Gogh, Monet e Degas” a Padova, “Joan Mirò. Il linguaggio dei segni” a Napoli, “Il tempo di Giacometti. Da Chagall a Kandinsky” a Verona.

E dunque, come essere felici? Fate in modo di avere più tempo per voi stessi, per coltivare relazioni sociali più soddisfacenti, per fare qualche passeggiata nella natura o contemplare un paesaggio, per andare a teatro o visitare una mostra.

Milano: arte, storia, cultura e curiosità

Milano, conosciuta come capitale della moda e città d’affari per eccellenza, popolata di manager e trendsetter, fredda e nebbiosa, è in realtà uno scrigno di tesori d’arte, storia e cultura. Dal Duomo, la chiesa gotica più grande del mondo, a San Maurizio al Monastero Maggiore, decorata da cinquemila metri quadri di affreschi, dal Cenacolo, capolavoro di Leonardo da Vinci, alla Pietà Rondanini, ultima opera di Michelangelo, passando per i celebri Navigli, le leggiadre ville Liberty e le straordinarie collezioni dei musei fino ad arrivare al Castello Sforzesco, Milano offre infinite possibilità agli amanti del turismo culturale.

Duomo di Milano
Duomo di Milano

Milano è conosciuta in tutto il mondo per il suo straordinario Duomo, una selva di pinnacoli, statue ed archi rampanti, un racconto monumentale di oltre sei secoli di storia dell’arte. Architetti, artisti e grandi maestri artigiani hanno contribuito alla creazione di questa cattedrale unica, assolutamente da visitare! Tra le statue più curiose del Duomo ci sono certamente quella cinquecentesca di San Bartolomeo scorticato (che ha terrorizzato intere generazioni di ragazzini in gita scolastica) realizzata da Marco d’Agrate, quella di Primo Carnera realizzata negli anni 30 del Novecento per omaggiare il primo pugile italiano a fregiarsi del titolo mondiale e la Legge Nuova (1810) di Camillo Pacetti che pare abbia ispirato la realizzazione della, ben più famosa, Statua della Libertà di New York.

Tra le meraviglie meneghine è certamente da annoverare anche la Chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore, detta anche la “Cappella Sistina di Milano” grazie al maestoso ciclo di affreschi di scuola leonardesca che ne decora le pareti. Tra le grandi opere, recentemente restaurate e che quindi regalano nuovamente tutto il loro splendore, a colpire l’occhio del visitatore più curioso è l’affresco di Aurelio Luini (figlio del più celebre Bernardino) “Storie dell’Arca di Noè” che, incredibilmente, vede salire sull’arca più famosa di sempre gli altrettanto celebri “due leocorni”.

Cenacolo di Leonardo
Cenacolo di Leonardo

Milano vanta anche uno dei più grandi capolavori d’arte al mondo: il Cenacolo di Leonardo da Vinci (1494-1498). Contrariamente a quanto molti credono, l’Ultima Cena del maestro fiorentino non è un affresco ma un dipinto realizzato con tempera grassa e una tecnica molto simile a quella usata per la pittura su tavola che consentì una maggiore definizione dei dettagli e una brillantezza straordinaria dei colori. Nonostante i vantaggi, la scelta di questa originale tecnica causò anche grossi problemi di conservazione dell’opera, più esposta agli agenti atmosferici (ed ai vapori provenienti dalla cucina, essendo il Cenacolo dipinto sul muro del refettorio dell’ormai ex convento di Santa Maria delle Grazie) e al deterioramento causato dal passare del tempo. Ammirare l’Ultima Cena di Leonardo è un’esperienza emozionante che chiunque visiti Milano non deve lasciarsi sfuggire.

Un altro capolavoro degno di nota tra i tanti che si trovano a Milano, benché sia probabilmente meno conosciuto e certamente meno apprezzato del Cenacolo, è la Pietà Rondanini di Michelangelo (1552-1564) regina indiscussa dei Musei del Castello Sforzesco. Opera ritenuta tra le più personali del maestro (forse addirittura ideata per la di lui sepoltura secondo quanto indicato dal Vasari), la Pietà Rondanini rappresenta la scena biblica, raffigura l’abbraccio tra la madre e il figlio, sottintende la prossimità della resurrezione. Curioso il fatto che la monumentale opera sia stata acquistata dal Comune di Milano nel 1952 grazie ad una sottoscrizione pubblica tra tutti i cittadini (fortemente voluta dall’allora direttrice della Pinacoteca di Brera Fernanda Wittgens) che raccolse i 135 milioni necessari all’acquisto.

Se avrete l’occasione di visitare Milano in più giorni non lasciatevi sfuggire le collezioni d’arte della Pinacoteca di Brera – dal Cristo morto di Mantegna al Bacio di Hayez – della Pinacoteca Ambrosiana – dal Musico di Leonardo alla Canestra di Caravaggio – e del Museo del Novecento che espone il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, Forme uniche della continuità dello spazio di Boccioni (sì, la scultura riprodotta sui 20 centesimi di euro italiani) e opere di de Chirico, Fontana, Modigliani e Kandinskij.

Ma a Milano l’arte non è solo quella dei grandi capolavori, a Milano si passeggia con il naso all’insù per ammirare le ville decorate da maioliche colorate in stile Liberty – una su tutte Casa Galimberti in Porta Venezia – si respira la romantica atmosfera dei Navigli tra botteghe d’arte e bistrot, si rimane incantati dalle storie e dalle leggende raccontate dal Castello Sforzesco e dal Parco Sempione, ci si stupisce di fronte ai coloratissimi murales dei quartieri più popolari come NoLo o l’Ortica.

Plastica: storia della più celebre nemica dell’ambiente

Sotto i riflettori come non mai, neoeletta peggior nemica dell’ambiente a causa del suo lentissimo processo di degradabilità (dai 100 agli oltre 1000 anni), la plastica ha in realtà una storia piuttosto longeva.

Il primo materiale di tipo plastico venne inventato e brevettato tra il 1861 e il 1862 dall’inglese Alexander Parkes. Con gli studi dei fratelli Hyatt (Stati Uniti, 1870) si otterrà poi la formula della cellulosa che fornì la base, nel XX secolo, per lo sviluppo dell’acetato di cellulosa. Nel giro di pochi anni, nel secondo decennio del ‘900, vengono brevettati la Bakelite, il PVC e il cellophane: la via per l’invasione della plastica è aperta.

Tra gli anni ’30 e ‘40 la plastica diventa protagonista dell’industria moderna, il petrolio viene elevato a “materia prima”, migliorano le tecniche di stampaggio e lavorazione, vengono brevettati il nylon e il polietilene tereftalato (PET). Proprio il PET diverrà celebre in qualità di contenitore per bevande quando, nel 1973, Nathaniel Wyeth brevetta la bottiglia che oggi è riconosciuta come standard per il confezionamento delle acque minerali e delle bibite: la celeberrima bottiglietta di plastica!

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Nei decenni successivi, gli anni del boom economico, la plastica entra prepotentemente nelle case di tutti gli italiani (anche in seguito alla scoperta di Giulio Natta nel 1954 del Polipropilene isotattico) e si afferma nel mondo della moda, del design e, più tardi, dell’innovazione tecnologica.

Fu a partire dagli anni ’90 che i ricercatori identificarono le cosiddette “Isole di plastica” negli oceani e venne coniato il termine “microplastica” (dall’oceanografo Richard Thompson) per lanciare l’allarme riguardo ai minuscoli frammenti plastici che stanno inquinando direttamente gli organismi degli animali marini. Le microplastiche possono risultare dalla rottura di plastiche di più grandi dimensioni o essere state create appositamente dalle aziende per i loro prodotti, in particolare cosmetici e detersivi, come “microsfere”.

“L’Università di medicina di Vienna ha dimostrato la presenza di piccoli pezzi di plastica, di dimensioni comprese tra 50 e 500 micrometri, nei campioni di feci umane. Sono stati analizzati i campioni di otto diversi partecipanti dai 33 ai 65 anni, provenienti da Giappone, Russia, Paesi Bassi, Regno Unito, Italia, Polonia, Finlandia e Austria. Tutti i campioni sono risultati positivi alle microplastiche. Nello specifico, sono stati rilevati nove diversi tipi di plastica: il polipropilene e il polietilentereftalato sono risultati i più comuni. In media, i campioni contenevano 20 particelle di microplastica per ogni 10 grammi di feci umane. Secondo i diari alimentari tenuti dai partecipanti risulta che tutti sarebbero venuti a contatto con la plastica tramite involucri alimentari e bottiglie e sei delle otto persone avrebbero mangiato pesce dall’oceano.” [Repubblica.it – 7 settembre 2019]

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Proprio contro le microplastiche si è scatenata la prima protesta contro la plastica che, nel giro di pochi anni, ha raggiunto dimensioni inimmaginabili. La spiegazione che si sono dati gli esperti riguardo a tutto l’interesse e la preoccupazione sul tema rispetto ad altri problemi ambientali [spesso più gravi, come ad esempio i cambiamenti climatici] è piuttosto semplice:

il problema è percepito come risolvibile.

Ma lo è davvero?

Consideriamo dunque qualche buona notizia (dall’Europa e dall’Italia) che ci fa sperare che la risposta sia “Si”.

  • All’inizio del 2019 il Parlamento Europeo ha approvato nuove norme su proposta dalla Commissione ambiente per l’eliminazione dei prodotti di plastica monouso per i quali esiste un’alternativa sostenibile (posate di plastica, cannucce, cotton fioc, coperchi per bevande, ecc) entro il 2021. La direttiva europea prevede anche che entro il 2029 il 90% delle bottiglie di plastica PET debba essere raccolto e riciclato dagli Stati membri. Alle aziende produttrici di involucri e contenitori spetterà l’attività di sensibilizzazione tramite etichette informative e anche l’obbligo di contribuire ai costi di gestione e bonifica dei rifiuti.
  • Alle elezioni europee 2019 il gruppo dei Verdi ha ottenuto 75 seggi (poco meno del 10%), quasi il doppio della tornata elettorale 2014.
  • Nel 2018 il Regno Unito ha vietato le microplastiche nei cosmetici e nei prodotti di igiene personale.
  • L’Italia è stato il primo Paese in Europa ad approvare la legge contro gli shopper non compostabili, approvata nel 2006 ed entrata in vigore nel 2012, ad applicare dal 1 gennaio 2018 la messa al bando dei sacchetti leggeri e ultraleggeri di plastica tradizionale, a dire stop ai cotton fioc non biodegradabili e compostabili (dal 2019) e microplastiche nei cosmetici (a partire dal 2020). [fonte: Legambiente]

La strada da fare è ancora tanta, tantissima, ma il cammino è iniziato…

“Tutti gli insegnanti dicono la stessa cosa, […] “Sarete voi a salvare il mondo.” Sì, ce l’hanno già detto. Ma non sarebbe così stupido se almeno ci voleste aiutare un po’”. [Greta Thunberg]

Per maggiori informazioni vi invito a consultare il sito Corepla – Consorzio nazionale per raccolta riciclo e recupero degli imballaggi in plastica, a leggere questo interessantissimo articolo di Stephen Buranyi per The Guardian tradotto e pubblicato su Eco-Magazine.info e, soprattutto, ad acquistare in modo consapevole.

Game of Thrones – Game of Brands

Serie televisiva statunitense trasmessa a partire dalla primavera del 2011, Game of Thrones (in Italia “Il Trono di Spade”) trasporta sullo schermo i romanzi fantasy di George R. R. Martin narrando le vicissitudini dell’immaginario Westeros, continente occidentale di un mondo popolato di creature straordinarie quali draghi, metalupi,  stregoni e da dinastie leggendarie. Fin dalle prime stagioni (in queste settimane viene trasmessa l’ottava stagione di Game of Thrones) la serie tv ha regalato ottime prestazioni in merito ad ascolti e critica. Il primo episodio, andato in onda il 17 aprile 2011, registrò 2,2 milioni di telespettatori che, crescendo costantemente negli anni, hanno raggiunto i 12 milioni di telespettatori per il finale della settima stagione (27 agosto 2017).

Il grande successo di Game of Thrones non poteva certo passare inosservato agli occhi delle aziende che, quotidianamente, competono sui social media per attirare quanta più attenzione possibile creando interessanti esempi di come un brand possa promuoversi in modo creativo, divertente e altamente riconoscibile da una larga fascia di pubblico e scatenando un vero e proprio Game of Brands.

Il Game of Brands diventa ancora più interessante quando si sceglie di utilizzare il potente (e divertente!) gioco del Real Time Marketing [Capacità di un’azienda di rispondere velocemente agli stimoli esterni creando occasioni di visibilità per il proprio brand o perfezionando i propri prodotti], uno strumento incredibilmente pervasivo ma spesso di breve durata che vede nel timing di realizzazione il suo principale alleato (“real time” ovvero “in tempo reale, istantaneo”).

Così la tazza di plastica del classico caffè a portar via diventa l’occasione per Greenpeace International di realizzare un contenuto (riuscitissimo!) che parli ai propri utenti del problema ambientale causato dall’abuso della plastica nel nostro quotidiano, la scena (spoiler!!!) in cui Arya Stark prende coscienza del suo destino grazie al dialogo con la sacerdotessa Melisandre che le chiede “Cosa diciamo al dio della morte” ottenendo un “Non oggi” come risposta diviene l’occasione per le aziende più reattive (ho scelto come esempio  di questo strumento il simpatico contenuto realizzato da Durex India su Instagram) di utilizzare quelle parole per promuovere i propri prodotti.

In questa carrellata di contenuti realizzati dai player del Game of Brands non ci si può certamente esimere dall’inserire l’eccezionale sigla della serie tv Game of Thrones reinterpretata dall’azienda dolciaria Oreo (che non è certamente l’ultima arrivata in tema di Real Time Marketing e contenuti originali) che ha ricostruito i castelli di Westeros con i suoi iconici biscotti. Ma il vero Re del Game of Brands è Adidas con la sua linea di sneakers dedicate a Games of Thrones!

Milanoguida - I draghi di Milano
Milanoguida – I draghi di Milano

Infine, la mia personale esperienza come player del Game of Brands: “I draghi di Milano” (le fontanelle tipiche meneghine con il rubinetto a forma di testa di drago)  contenuto postato sui social network (Facebook e Twitter) dell’agenzia turistica MilanoguidaPerchè, con i suoi 586 draghi verdi, è Milano la vera “Madre dei draghi”!

Notre Dame brucia: il simbolo di una generazione

Notre Dame brucia. Il simbolo di una generazione illusa, disillusa, delusa, maltrattata è crollato. Spento l’incendio,  si sono accese le polemiche.

La Cattedrale parigina versava da anni in condizioni preoccupanti, proprio dalle impalcature posizionate per un’operazione di restauro dell’edificio pare abbia avuto origine l’incendio che il 15 aprile 2019 ha trafitto non solo il cuore di Parigi ma il cuore di una generazione che ha assistito impotente al crollo della guglia centrale e parte del tetto di Notre Dame.

I maggiori media mondiali hanno informato, discusso e alimentato le polemiche scaturite dall’incendio (dalla mala gestione statale del monumento negli anni alla velocità con cui potenti e industriali si sono proposti quali finanziatori del nuovo, e quanto mai ingente, restauro che riporterà Notre Dame al suo antico splendore) ma nessuno di loro si è concentrato sulla valenza simbolica che Notre Dame ha assunto per un’intera generazione.

Generazione caratterizzata oggi dalla deriva sociale e ideologica, la truppa illusa, disillusa, delusa, maltrattata dei cosiddetti Millenials (i nati tra gli anni ’80 e ‘90 nei Paesi occidentali) ha scoperto Parigi grazie al romantico film d’animazione prodotto dalla Disney (Capolista nella top 10 stilata nel 2017 da Reputation Institute Italia delle aziende più amate dagli italiani, la Disney perde il primato in favore di Amazon nella classifica dei Millenials che preferiscono, oggi, la realtà ai sogni – ne parlo qui) nel 1996: “Il gobbo di Notre Dame”.

Personaggio positivo, il gobbo Quasimodo (ideato da Victor Hugo per il suo “Notre-Dame de Paris” del 1831) è cresciuto isolato da una società che non può accettarlo, interagendo unicamente con un tutore il cui unico scopo è denigrarlo e con la cattedrale di Notre Dame, sua unica e migliore amica rappresentata dai tre gargoyles di pietra animati e ciarlieri. Ed è stato proprio allora che ci siamo innamorati di lei, che abbiamo iniziato ad ammirare con affetto quelle fredde pietre che portavano in dote nove secoli di storia d’Europa. Nel momento esatto in cui abbiamo iniziato ad amarla, nell’attimo in cui la monumentale cattedrale divenne nel nostro immaginario l’allegro ciarlare di Quasimodo con i suoi amici (la sua amica) Notre Dame è diventata uno dei simboli della nostra generazione.

Vignetta "Quasimodo abbraccia Notre Dame" disegnata dall’artista Cristina Correa Freile
Vignetta “Quasimodo abbraccia Notre Dame” disegnata dall’artista Cristina Correa Freile

I Millenials, come non accadeva dall’epoca dei baby boomer (i nati tra gli anni ’50 e ’60, cresciuti tra le amorevoli braccia del boom economico che videro moltiplicarsi le opportunità che avevano caratterizzato la condizione dei propri padri) hanno sperimentato un repentino shock tra le prospettive socio economiche preventivate ed esposte candidamente loro dalle generazioni che li precedevano e la realtà. Per la prima volta da decenni, l’avanzamento è quasi precluso, molto più probabile invece che si verifichi una condizione di arretramento socio economico rispetto alla condizione dei proprio padri o, peggio, si rimanga incastrati, galleggianti nullafacenti, aspiranti al nuovo e scintillante reddito di cittadinanza, ombre NEET (neither in employment nor in education and training – Non impegnati nello studio, nella propria formazione, in un lavoro o nella ricerca di esso).

E così ci siamo illusi, siamo stati cullati dalle fiabe, poi ci siamo impegnati, siamo diventati sicuri e arroganti e, prima che succedesse a Notre Dame, le nostre velleità sono crollate in un cumulo di polvere, sepolte da quei muri in fiamme che non abbiamo potuto varcare. Notre Dame brucia. Notre Dame sarà ricostruita dai soldi dei potenti. E la nostra polvere sarà spazzata via.

L’ultimo in fondo a destra

L’Ultimo in fondo a destra. É un modo di dire comune in alcuni mondi.

Quell’estate faceva un caldo appiccicaticcio, non avevo voglia di svegliarmi. Perchè mai avevo fatto quel corso per distinguermi dal resto del mio gruppo? Perchè mai cercarmi una sorte così meschina? Eppure mi ero distinta e questo aveva portato al peggio. L’ultima in fondo a destra di questo nuovo gruppo. Avevo servito l’azienda per mesi dopo essere stata scelta battendo in furbizia gli uomini (che non è poi una gran prova) e in sagacia le donne [questo decisamente più difficile] e poi avevo scelto di contare qualcosa di più. Era tanto più bello starsene a quella scrivania a elaborare dati sulle mie pivot, poi ho voluto di più. E son finita qui.

Questo Paese mi sfianca. Solo zanzare e corvi. Zanzariere e presagi. Guardo fuori dalla finestra: un deserto infinito popolato di esseri brulicanti, nervosi di fare, di ottenere, di concludere un seppur minimo affare per sentirsi soddisfatti e tornare alle loro baracche fieri di aver trionfato. Non è il caldo che mi smembra ma è il perenne appiccicaticcio mondo insulso intorno, come se io dovessi contare più di quel che conto in questo continuo rincorrersi di salite verso un gradino più alto senza mai vederne la fine, come alla ricerca di una costante impellente necessità di essere l’ultima di qualcosa. Ho chiuso la finestra, acceso il condizionatore e fatto la doccia. Non ero certa se fosse il caldo appiccicaticcio o l’aria dell’apparecchio ma avevo la sensazione di non essere bagnata pur non trovandomi mai asciutta. Quest’agglomerato di casette prestampate è costruito per non farti mai uscire nel mondo reale, collegato direttamente con l’azienda, solo quella finestra del mio bungalow di legno confina con la periferia est del villaggio industriale e mi da modo di guardare fuori. Ho richiuso la finestra e sono uscita verso il corridoio dell’azienda.

Dalla scrivania al girotondo, qui si inizia la giornata uno accanto all’altra, solitamente bevendo un caffè brodoso che ti fa rimpiangere quello che bevevi da sola al bar prima di scappare verso la metro, inesorabilmente in ritardo. Ma qui essere in ritardo è difficile, hai scelto un lavoro e quello sei destinato a fare, perso nello spazio vuoto di ciò che ti circonda e che non conosci, che non potrai mai conoscere. Poi, quel giorno, la parte peggiore d ciò che non potevo conoscere ha fatto irruzione nel mio mondo di acciaio e legno prestampato. A quanto pare, sul finire dello scorso anno, l’azienda aveva violato la prima regola di un mondo, ovvero rispettarne le regole, smettendo di consegnare le mazzette che per una decade, a mezzo di uno sgangherato furgoncino guidato da un ancor più sgangherato soggetto sulla cinquantina, erano giunte ai signori locali, forte del contratto firmato con grandi sorrisi con il nuovo governo. Ma di governi qui ce ne sono di nuovi ogni giorno, di signori solo certi, e pare non muoiano mai.

Erano otto e noi non eravamo neanche uno. Osservavo i miei colleghi: quello Grasso, che poverino anche in condizioni normali era sempre grondante di sudore per questo caldo appiccicaticcio, piangeva in silenzio e si copriva le parti basse non potendo però così distogliere l’attenzione dalla chiazza gialla che si allargava ai suoi piedi; quello Buffone, che aveva sempre una parola di scherno per tutti mascherata da battuta, che era impietrito e, stranamente, ammutolito di fronte a questa situazione, quella Bella che, presagendo per lei il peggior trattamento immaginabile, tentava di nascondersi standosene a filo della macchina del caffè, quello Promosso ieri, che oggi doveva andarsene e che stava valutando, sbigottito, se mai avrebbe avuto un domani. Non ebbi comunque modo di osservarli tutti prima che ci facessero allineare, uno di fianco all’altro, uno uguale all’altro. Quello che con quest’azione si qualificò come il capo del nerboruto gruppo, ordinò al più giovane [questo era palese, il mercenario che ci puntava contro un mitra nero non avrà avuto più di 13 anni] di uccidere tutti.

Eravamo una linea di cadaveri e io, guarda caso, ero l’ultimo cadavere in fondo a destra. La cosa mi fece sorridere, ricordai di mio padre che, quando seppe di dover morire seppure nessuno avesse il cuore di dirglielo, mi disse calmo di non metterlo nell’ultima tomba a destra (che si era liberata la settimana prima dopo che il figlio del tale che vi era sepolto, che aveva perso il lavoro mesi prima, non ci aveva pensato due volte a fare economia e far spostare il genitore nell’ossario liberando così la postazione che si trovava, per l’appunto, sul confine del cimitero, entrando in fondo a destra) perchè diceva, si sta male li, si guarda sempre il mondo fuori. Ma qui eravamo tutti uguali, tutti una linea, ed essere l’ultima in fondo a destra non avrebbe potuto penalizzarmi in alcun modo.

Il ragazzino iniziò serafico il suo lavoro, quasi stesse lanciando dei sassi nello stagno per vedere gli strani giochi d’acqua che questi creano quando rimbalzano sulla superficie facendo diversi saltelli, osservava distaccato, incuriosito, ciò che esprimeva ciascuna persona prima che lui la cancellasse dalla linea. Paura, disprezzo, disperazione, paura. Soprattutto paura. Il gioco non lo divertiva gran che, era monotono guardare sempre la stessa cosa. Cominciò ad agire più in fretta. Fu allora che, capendo di non avere molto tempo prima che il ragazzino finisse il lavoro, il capo disse “Lascia l’ultima in fondo a destra, che testimoni”, e io, pur avendo negli occhi il ghigno del Buffone che di fianco a me moriva, sorrisi. Poi la sentii singhiozzare, alla mia destra, standosene a filo della macchina del caffè.

Questi sono stati i miei ultimi pensieri. Il mio ultimo pensiero è stato di essere l’ultima in fondo a destra, fino a che non lo sono stata più.

Analfabeti funzionali: gli odierni creatori della cultura italiana

Per secoli sono esistiti i creatori di cultura. Ancor prima (molto prima) che il termine cultura – Kultur – venisse utilizzato in quest’ambito nel Settecento dai tedeschi progenitori dei sociologi moderni, c’erano Michelangelo e Leonardo a portare la maestosità delle loro opere al popolo grazie al potere della chiesa, c’era l’oste emiliano che sbirciando dalla serratura l’ombelico di una cliente inventò i tortellini, c’era il corredo della sposa realizzato a mano, c’erano la selva oscura e Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, c’erano il Colosseo, il Castello Sforzesco, il Maschio Angioino e la Basilica di San Marco. E in seguito ci furono l’ermo colle e quel ramo del Lago di Como, le battaglie femministe per il voto e quelle dei lavoratori per il diritto allo sciopero, ci furono Maria Montessori e Alessandro Volta.

Ma, dopo secoli, è nel decennio corrente che ci troviamo di fronte alla destrutturazione della tradizionale creazione di cultura. Causato in massima parte dall’arrivo di grandi fasce della popolazione sui social network, questa turbolenta inversione di rotta si caratterizza per la possibilità che dà a chiunque di reinventarsi quale creatore di cultura. Tempo fa lessi un’affermazione di Umberto Eco che sintetizza amaramente il fatto che, nei secoli, opinioni poco sensate o non condivise dalla collettività venivano facilmente da quest’ultima sedate mentre ora, online, ciò che viene condiviso ha infinite possibilità di giungere all’orecchio di un altro folle e, in breve tempo, tramutarsi in cultura.

In seguito al conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Culture dei Media, Umberto Eco sostenne che “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. 

Come la storia insegna, ad ogni invasione dovrebbe corrispondere una resistenza, una resa o, come in questo caso, una fuga. Ed è così che l’invasione degli imbecilli ha trionfato conquistando le nuove terre del terzo millennio, i social network. In questo nuovo mondo, patria degli emigranti in cerca più di condivisioni che di fortuna, gli imbecilli di Eco si dan man forte, spingendosi poi nel territorio circostante, nel mondo reale, forti delle loro certezze.

Ma da dove nasce questa necessità degli imbecilli digitali di comunicare, di essere ascoltati, di essere compresi? Probabilmente la questione ha origine proprio da ciò che Eco descrive con la sua frase, dopo una vita durante la quale questi soggetti  “parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività” e poi “Venivano subito messi a tacere” hanno trovato finalmente un’occasione di riscossa grazie all’avvento dei social network, nati proprio con la finalità di mettere in contatto persone che avessero tra loro qualcosa in comune (Mark Zuckerberg fondò Facebbok nel 2004 con l’intenzione di incentivare la socializzazione tra studenti dell’Università di Harvard).

Per quanto la stessa Facebook abbia provato a contenere le bufale, le fake news e determinati contenuti ritenuti offensivi (ne parlo qui: Lotta a bufale e analfabetismo funzionale: Facebook nuovo alleato)  non è ancora stato trovato un modo di arginare gli imbecilli di Eco che ora, più educatamente, vengono definiti “Analfabeti funzionali”. Queste persone, che, secondo un indagine del Programme for the International Assessment of Adult Competencies (PIAAC) che ha considerato 33 Paesi, risultano essere circa il 28% in Italia (peggio di noi in Europa solo la Turchia con una percentuale del 48% di analfabeti funzionali) sanno leggere e scrivere ma non hanno capacità di elaborazione critica, non sono in grado di comprendere le istruzioni di montaggio di un elettrodomestico ne di elaborare ed utilizzare le informazioni di un testo semplice.  Nella maggior parte dei casi gli analfabeti funzionali  hanno più di 55 anni e sono poco istruiti, oppure sono giovanissimi che che vivono ancora con i genitori e non studiano ne lavorano (i cosidetti NEET – not in education, employment or training) o, probabilmente nel peggiore dei casi, sono laureati che hanno subito una sorta di processo di analfabetismo di ritorno.

Ecco con chi abbiamo a che fare, ecco chi crea la nostra cultura oggi, ecco chi si affanna a parlare di politica, chi crede che i migranti percepiscano 35 euro al giorno, chi dice che le famiglie arcobaleno non esistono, chi  crede che un’azienda assumerà un giovane che verserà gli stessi contributi di un lavoratore con quarant’anni di anzianità pagandogli la pensione, chi usa la reaction di risata, pensando alla solita fake news che lui stesso è stato accusato di condividere, quando l’Ansa dà notizia di un naufragio. Chi ride della morte.  Ecco con chi abbiamo a che fare, ecco chi crea la nostra cultura oggi.

Giornata Mondiale dell’Ambiente 2017: l’impatto dell’alimentazione umana

Proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite 45 anni fa (nel 1972), il 5 giugno di ogni anno ricorre la Giornata Mondiale dell’Ambiente, dedicata nel 2017 alla connessione tra la natura e l’uomo.

In base ai dati dell’indagine Waste Watchers presentati da Last Minute Market, oltre l’80% degli italiani si dichiara ambasciatore della cultura green (ovvero disposto a farsi carico del cambiamento necessario) e acerrimo nemico dello spreco alimentare: il 91% degli intervistati la considera cosa grave o gravissima e ben il 96% dichiara di insegnare ai figli a non sprecare.

Quel che manca pare essere la consapevolezza riguardo alla situazione attuale: 3 intervistati su 4 incolpano la filiera di produzione/distribuzione e gli esercizi di ristorazione di produrre enormi sprechi quando, stando alla realtà dei fatti, il 60/70% dello spreco alimentare avviene nelle case ed è pari a circa 16 miliardi annui (1% del pil).

Per quanto riguarda gli sprechi alla fonte (produzione, distribuzione e ristorazione), è stata approvata pochi mesi fa dal parlamento italiano la Legge Antisprechi, un sistema premiante per chi dona l’eccedenza alimentare, di farmaci e vestiario, basato su incentivi (riduzione dell’importo della tessa sui rifiuti) e semplificazioni burocratiche.

Sembra evidente, oggi più che mai, che la volontà di fare la cosa giusta rischia di rimanere solo una dichiarazione d’intenti, sostenuta dalla mala informazione che spinge le persone ad incolpare qualcun altro di un torto del quale esse stesse sono inconsapevolmente colpevoli. Facile puntare il dito. Facile essere ambasciatori green se il nostro compito è spingere altri a cambiare. Difficile è cambiare noi stessi e le nostre abitudini.

Lo spreco alimentare casalingo è, come noto, solo una delle cause che rendono l’alimentazione umana non più sostenibile per il pianeta, altra problematica che necessita di maggiore attenzione è quella del consumo di carne ed, in particolare, della presenza di allevamenti intensivi di animali.

allevamento suini

“Quella di oggi è la prima generazione ad avere piena consapevolezza che ogni scelta comporta delle conseguenze. E’ tempo di decidere tra la vita e la morte e scegliere di seguire la corrente significa scegliere la morte.”

Frances Moore Lappé, attivista e scrittrice statunitense

Il dato sconvolgente del quale la maggior parte delle persone paiono tutt’ora essere all’oscuro – nonostante sia presente addirittura nella popolarissima Wikipedia – è che per produrre un chilo di carne da immettere sul mercato sono necessari tra i 14 e i 20 chili di cereali e leguminose.

allevamento mucche

“Gli allevamenti sono fabbriche di proteine alla rovescia”.

Frances Moore Lappé, attivista e scrittrice statunitense

Agli allevamenti intensivi e al loro legame con il collasso ambientale si sono interessati recentemente diversi studiosi e scrittori; ogni anno vengono pubblicati libri, realizzate nuove ricerche ed emergono evidenze a sostegno dell’adozione di una dieta vegetariana o vegana che consenta al pianeta di continuare a vivere. Tra i parametri considerati più importanti: il consumo di acqua e le emissioni di CO2.

allevamento polli

Ad esempio, la ricerca italiana del 2006 “Valutazione dell’impatto ambientale di diverse tipologie di alimentazione” ha determinato che una dieta vegetariana ha un impatto ambientale di 1,8 volte superiore rispetto ad una dieta vegana mentre un alimentazione onnivora che rispetti parametri dietetici consigliati arriverebbe quasi a triplicare l’impatto di una dieta che rifiuti carne e derivati. Lo studio puntualizza che, nel 2006, la dieta scorretta adottata mediamente dagli italiani risultava avere un impatto di 6,7 volte superiore rispetto a quella di un vegano.

macello

 “Pensare di avere più diritto a mangiare un animale di quanto ne abbia l’animale a vivere senza soffrire è una depravazione. Non sono ragionamenti astratti. È questa la realtà in cui viviamo. Guarda che cosa sono gli allevamenti intensivi. Guarda che cos’ha fatto la nostra società agli animali non appena ne ha avuto il potere tecnologico. Guarda che cosa facciamo effettivamente in nome del «benessere degli animali» e del «trattamento umano», e poi decidi se sei ancora disposto a mangiare carne.. E allora quanta sofferenza è accettabile? È questa la base di tutto, ed è questo che ognuno di noi deve chiedersi. Quanta sofferenza sei disposto a tollerare per il tuo cibo?”

Jonathan Safran Foer, scrittore e saggista statunitense

di Simona Turelli

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